Ho già dedicato un libro a questo argomento “Creative Destructions -
Dario Piana, Schumpeter and the Beatles – Lupetti Editore – Milano 2005”. Lo scopo era tutt’altro, aiutare un amico in crisi esistenziale, ma l’introduzione alla straordinaria visione schumpeteriana, è ancora oggi valida.
Ne riporto qui sotto i passaggi essenziali.
La prima volta che lessi di Schumpeter stavo preparando una relazione per una convention aziendale nella quale, in veste di strategic planner, dovevo tentare di illustrare al management le principali tendenze per il prossimo futuro.
Colto da sindrome di onnipotenza, mi gettai a capofitto nella lettura di almeno una decina di volumi e, come spesso accade un riferimento bibliografico porta ad un altro, mi ritrovai a leggere un breve trattato sulle principali teorie economiche dell'ultimo secolo. L'azienda, per la quale lavoravo a quei tempi, era un'azienda Hi-Tech per la quale la tecnologia era l'anima e il corpo del proprio business e quell'economista austriaco dal nome tanto simile a una schioppettata, enunciava una teoria generale basata proprio sull'innovazione tecnologica, un'innovazione così violenta e rivoluzionaria da essere definita distruttiva della madre dalla quale derivava, una specie di mantide religiosa industriale. Quest'apparente contraddizione in termini è in realtà l'esplicitazione tautologica di un fenomeno assolutamente naturale, che soddisfa il principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto. Il capitalismo, infatti, non è un sistema statico, ma un sistema in continua e accelerata evoluzione. La storia del capitalismo è per Schumpeter una storia di rivoluzioni, che egli chiama distruzione creatrice: distruzione perché vengono superati vecchi metodi produttivi, tecnologie, conoscenze e risorse umane, creatrice perché solo da questi cambiamenti scaturisce il nuovo. Protagonisti della distruzione creatrice sono gli imprenditori creatori, capaci di audaci visioni di business da implementare sul prodotto stesso o sui processi necessari per produrlo, venderlo o renderne gli opportuni servizi al consumatore. Chi studia il capitalismo studia un processo evolutivo; il capitalismo è per sua stessa natura un processo in continuo divenire, mai stazionario. La scintilla che accende e tiene in moto la macchina capitalistica viene dai nuovi prodotti, da innovative metodologie manifatturiere o di trasporto, dall'invenzione di nuovi mercati, dal concepimento di nuove forme organizzative, che l'impresa capitalistica crea.
Questo processo di distruzione creatrice è la vera essenza del capitalismo. Invece di studiare come il capitalismo amministri le strutture esistenti, Schumpeter afferma che il problema essenziale è come il capitalismo crei e distrugga le proprie organizzazioni. Ciò che davvero importa non è la competizione sui prezzi, ma la concorrenza creata dal nuovo prodotto, dalla nuova tecnologia, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo modello organizzativo che realizza un vantaggio competitivo di costo e di qualità e incide non solo sui margini di profitto e sulla produzione delle imprese ma, soprattutto, sulla loro stessa sopravvivenza. L'effetto della competizione opera non solo quando essa è in atto, ma anche in termini di deterrente competitivo. Il mercato immaginato dagli economisti classici, inteso come sistema di concorrenza perfetta, non è mai esistito, e ci si trova spesso invece in situazioni di concorrenza imperfetta, di concorrenza dominata da monopoli. Inoltre, Schumpeter sviluppa una teoria della decisione e della formazione della domanda e dell'offerta profondamente diversa da quella proposta dalla teoria neoclassica. Quest'ultima considera la formazione della domanda e dell'offerta come il risultato del comportamento razionale di attori economici perfettamente informati, fra loro indipendenti e dotati di sistemi di preferenze dati. Secondo Schumpeter nella realtà questo non accade mai. Le preferenze non sono mai soltanto date, ma si formano e i produttori dispongono dei mezzi per influire in misura importante su di esse. Inoltre Schumpeter afferma che l'informazione ha un costo e che i consumatori non posseggono informazioni complete sui beni tali da consentire loro di effettuare scelte competenti, né dispongono delle risorse per compiere ricerche esaustive sui beni esistenti, sulla loro qualità. La conoscenza dei prezzi non è da questo punto di vista sufficiente per effettuare una scelta, perché il consumatore, per effettuare una scelta razionale, dovrebbe poter comparare prezzi, prestazioni e qualità. Anche se le suddette affermazioni sono oggi falsate dalla potente pervasività di Internet, è comunque vero che i consumatori non possono effettuare scelte perfettamente razionali, ma scelgono in base alla fiducia, delegando ai produttori il compito di informarli sulla qualità dei prodotti, anche perché oggi i prodotti in competizione l’un con l’altro sono talmente tanti da rendere impossibile una comparazione esaustiva e razionale.
Da cui la pubblicità, secondo Schumpeter, è uno strumento di creazione, di orientamento e di distorsione delle preferenze, che si basa non solo su fattori razionali, ma su meccanismi psicologici di manipolazione.
Rispetto all'analisi economica tradizionale Schumpeter mette in luce i limiti dell'autonomia cognitiva e decisionale dei consumatori, evidenziando come essa dipenda dalla reale possibilità che i consumatori stessi hanno di verificare la qualità e le prestazioni dei beni che hanno acquistato o che intendono acquistare.
È infatti vero che anche ai tempi di Internet, a un consumatore medio, è richiesta una sempre crescente competenza e conoscenza ai fini di poter valutare e confrontare prodotti sempre più complessi e tecnologici. Gli stessi negozianti e addetti alle vendite, sembrano aver raggiunto il proprio limite di competenza e anche la decisione d'acquisto di un prodotto apparentemente semplice e d'immediata fruizione come un televisore o un telefono, può essere caratterizzata da comparazioni molto complesse delle rispettive caratteristiche funzionali, senza parlare di quelle più squisitamente tecniche, dove la competenza necessaria è quella di un ingegnere elettronico o almeno di un appassionato hobbista.
In questa situazione di eccesso d'informazione e quindi di nessuna informazione utilizzabile ai fini decisionali, il consumatore tende ad affidarsi, oggi più che mai, alla fiducia derivante dalla notorietà di un certo marchio rispetto ad un altro. Questa affascinate teoria trova assoluta applicazione nella realtà odierna, ma i cicli distruttivi avvengono con tale frequenza da rendere quasi impossibile la loro osservazione e addirittura il loro sfruttamento economico.
Ci sono innovazioni che distruggono innovazioni appena arrivate sul mercato.
Tutto questo secondo molti osservatori ed economisti non ha avuto impatti negativi sull’occupazione, anzi l’ha favorita anche se con pesanti contraccolpi sulle competenze richieste dal mercato, molto spesso differenti da quelle
possedute da chi il posto di lavoro l’ha perso, con incredibilmente rapida obsolescenza di competenze recenti e quindi la difficoltà di chi è colpito dall’innovazione distruttiva a riciclarsi nel nuovo comparto. Secondo una ricerca di Eurobarometro del 2017 il 72 per cento degli europei crede che i robot rubino il lavoro delle persone, e circa la stessa percentuale è convinta che i posti creati siano meno di quelli distrutti. Ma questa diffusa sensazione sembrerebbe essere smentita da autorevoli ricerche come quella pubblicata nel 2016 degli economisti Gregory, Salomons e Zierahn “Racing With or Against the Machine? Evidence from Europe” in cui sono stati analizzati le oscillazioni del mercato del lavoro in Europa, avvenuti tra il 1999 e il 2010, per capire se fino a oggi l’uomo ha perso quote nei confronti delle macchine. Nel periodo analizzato dallo studio 1,64 milioni di posti di lavoro sarebbero stati sostituiti da un macchinario o un algoritmo, ma allo stesso tempo in quegli stessi settori colpiti dalla sostituzione si sono creati ulteriori 1,4 milioni di posti di lavoro per via dell’aumento della produttività, e più di 2 milioni ulteriori in altri settori di mercato. L’effetto netto sarebbe un aumento di 1,8 milioni di posti di lavoro in Europa: una crescita che però pone il problema suddetto della differenza di competenze richieste, con la conseguenza che la maggior parte dei nuovi lavori non viene occupato da chi lo ha perso.
Ma le ricerche sul passato sono sempre molto interessanti e istruttive ma nulla dicono su ciò che accadrà nel futuro.
Se negli anni scorsi la tecnologia ha creato più posti di lavoro di quanti ne ha distrutti, accrescendo il benessere dei lavoratori, non è detto che così accadrà anche domani. In verità non tutte i lavori sono compatibili con la tecnologia: secondo questa ricerca “Daron Acemoglu & Pascual Restrepo, 2018. "Artificial Intelligence, Automation and Work," NBER Working Papers 24196, National Bureau of Economic Research, Inc., la vera sfida starà proprio nel controbilanciare la perdita di posti di lavoro creandone di nuovi in nuovi settori e mercati. Questa crescente preoccupazione è alimentata anche da autorevoli fonti, come ad esempio Carl Benedikt Frey and Michael A. Osborne, due ricercatori dell’università di Oxford la cui ricerca del 2013 prevedeva già che quasi il 50% dei lavoratori americani fossero ad alto rischio a causa dell’automazione e della digitalizzazione nel giro di un ventennio. A seguire è stato il colosso della consulenza strategica McKinsey a prevedere già nel 2017 che – globalmente – il 49 per cento dei lavori attualmente svolti da esseri umani nel mondo potranno sparire a causa dell’automazione.
Il report OCSE del 2019 OECD Employment Outlook 2019 The Future of Work, afferma che sarebbero il 14 per cento i lavori a rischio automazione, e oltre un terzo quelli le cui mansioni cambierebbero considerevolmente per lo stesso motivo. A livello italiano la stima è simile per i lavori a rischio, mentre è maggiore rispetto alla media Ocse quella sulle professioni che verranno rivoluzionate dalla tecnologia (più del 50 per cento).
Ma l’obsolescenza del lavoro umano forse non è l’unico problema futuribile.
Il mercato del lavoro del futuro, come spiega la ricerca dell’Ocse, porrà difficili sfide da risolvere. I rapporti di lavoro stanno diventando sempre più brevi, coloro che hanno un impiego ma vorrebbero lavorare di più (i cosiddetti sotto-occupati) stanno crescendo di numero e la polarizzazione delle possibilità di lavoro tra chi è molto qualificato e chi lo è meno si acuisce, favorendo la crescita degli impieghi ai due estremi – supercompetenti o routinari – e abbattendo quelli nel mezzo, ad esempio la manifattura, che possono essere delocalizzati o sostituiti dalle macchine. E non solo: oggi l’Ocse stima che 6 lavoratori su 10 non possano offrire competenze digitali di base, e che entro il 2050 gli over-65 avranno superato la metà della popolazione in età da lavoro.
Last but non least si sta verificando un fenomeno nuovo, mai visto finora.
La retribuzione media dei nuovi mestieri non è detto sarà maggiore rispetto a quelli persi, perché l’automazione insidia sempre più anche professionalità di retribuzione elevata e gli aumenti di produttività potrebbero andare a remunerare soprattutto il capitale investito anziché il lavoro. Questa è davvero il culmine di una delle più grandi illusioni degli ultimi cinquant’anni.
Negli anni settanta infatti si mitizzava che l’occupazione occidentale relativa alla produzione industriale trasferita progressivamente in quelli che allora erano i terzi mondi (molti dei quali purtroppo sono rimasti tali), sarebbe progredita in
occidente verso professioni sempre più creative, intellettuali, di grande contenuto. Invece il presente e il prossimo futuro sembrano soddisfare appieno i requisiti dell’effetto treadmill ipotizzato da Rìchard Easterlin.
L’incremento del reddito, infatti, porta con sé anche l’aumento di ambizioni e attese di soddisfazione degli individui. Lasciando quindi inalterato, e anzi talvolta peggiorando, il senso di insoddisfazione. Proprio come l’individuo che correndo sul tapis roulant pensa di progredire ma in realtà resta fermo.
È poi davvero
drammaticamente sorprendente notare come le grandi imprese web di oggi (Facebook
e Google) abbiano un fatturato per impiegato anche doppio rispetto a quelle
delle imprese software (Microsoft) e hardware (Intel) degli anni settanta e
addirittura settuplo rispetto alla GDO (Walmart) e di venti volte rispetto al
più celebre fast food del mondo (McDonald’s).
Azienda |
Impiegati |
Fatturato per impiegato |
McDonald’s (1940) |
400.000 |
60.000$ |
Walmart (1962) |
2.100.000 |
200.000$ |
Intel (1968) |
100.000 |
540.000$ |
Microsoft (1975) |
90.000 |
767.000$ |
Google (1998) |
32.000 |
1.170.000$ |
Facebook (2004) |
3.000 |
1.423.000$ |
Se questo non è l’effetto dell’automazione…
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