#12.2 Real Made In brand 



Immaginiamo che io sia un americano, di Boston per l’esattezza. Ho appena comprato un abito firmato da un grande stilista italiano.

Oltre allo stile, mi si aspetto di indossare un capo di alta qualità sartoriale, uscito dalle mani di un abile e ispirato artigiano italiano. Lo immaginiamo intento confezionare la mia giacca quasi fosse su misura, come se mi conoscesse e avesse intuito il mio mood, il mio stile di vita.

Poi guardo l’etichetta.

 

Styled in Italy – Made in Bangladesh.

 

Assolutamente indecente. Davvero inaccettabile!

Allora non chiamiamolo più “Made in Italy” ma in qualche altro modo.

Ma un brand, anche se importante non può e non deve permettersi di mentire ai propri clienti.

E poi perché? Per poche decine di miseri euro su un prezzo di vendita magari di migliaia euro? Ma è una cosa di cui vergognarsi

Alcune grandi griffe hanno cominciato a riportare in Italia alcune produzioni che stavano soffrendo per la mancanza di qualità.

Di recente, abbiamo sentito sempre di più parlare di reshoring, vale a dire, le aziende che in precedenza avevano esternalizzato la produzione all'estero (specialmente nei territori d'oltremare) hanno deciso di riportarla al loro paese d'origine (back reshoring), o comunque in Paesi vicini (near reshoring) per esigenze o strategie interne.

Un chiarimento: in questo caso, quando si tratta di trasferimento, non intendo le aziende che creano fabbriche in Asia (per citare solo un esempio) per vendere in Asia, ma società che spostano strategicamente la produzione in Asia (ad esempio) per continuare a vendere in Europa, con l’unico scopo di risparmiare sui costi, in modo da ottenere maggiori profitti finali.

Ma il motivo principale del back reshoring resta il riottenimento di un livello qualitativo che le maestranze estere non sono in grado di garantire,

La qualità, la bravura, la dedizione e la precisione del grande artigianato italiano sono uniche al mondo e se una volta, negli anni sessanta essere chiamato artigiano era quasi un insulto perché rivolto alle modeste dimensioni dell’impresa, ora le doti artigianali di una grande impresa sono un suo vanto messo sulla home page del proprio sito e nella headline delle sue campagne pubblicitarie.

Noi siamo un popolo di artigiani, lo siamo sempre stati.

Piccolo è bello è stato per anni lo scudo dietro il qual nascondere il nanismo dell’industria nazionale.

Ma i fatti sono l’unico argomento reale.

A parte alcuni bellissimi (si veda la moda) e buonissimi (si veda il food) casi abbiamo distrutto tutte le grandi imprese che avevamo o le abbiamo cedute ad azionisti esteri.

E in tutti i settori: Telecomunicazioni con Italtel e Telettra (grazie Fiat!), Informatica Olivetti (grazie De Benedetti), Alimentare Motta, Alemagna, Perugina, Buitoni (grazie sempre a De Benedetti) e abbiamo lasciato che la Fiat, dopo averne pagato la sopravvivenza con le nostre tasse (visto che era gestita da incapaci) trasferisse la propria sede legale all’estero e andasse a pagare le tasse da un’altra parte.

In compenso stiamo mantenendo da decenni la cosiddetta compagnia di bandiera, l’Alitalia, un giochino che ci è costato decine di miliardi e resta senza speranza alcuna di diventare mai profittevole, togliendo così risorse ad altri settori strategici.

Forse la nostra natura è quella di restare dei grandi artigiani, grandi non solo per bravura ma anche per dimensioni – migliaia di dipendenti invece di decine di migliaia – e che magari esportano il 90% della loro produzione (e sono tantissimi questi casi di aziende).

E tutto questo significa un cambio strategico di obiettivi, di approccio al mercato e soprattutto una maggior richiesta di forza lavoro di grande qualità, competenza, e creatività.

E quindi all’insegna della Slow Automation.


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