In questo capitolo voglio raccontarvi la storia dell’accelerazione dell’Innovazione così come l’ho vissuta Io negli ultimi 60 anni. Non si tratta ovviamente di un percorso storico scientifico accademico ma proprio perché raccontato dalla vita vera vissuta, forse ancora più significativo e vivido di come il mondo sia cambiato con grandissima velocità in pochissimi decenni.

Sono nato nel 1955 e Milano nel pieno del boom economico. Sono un vero rappresentante del cosiddetto baby boom.

Abitavo in viale Tibaldi quelli che oggi sono i viali della circonvallazione esterna 90-91 e a quei tempi i filobus sfrecciavano solitari su strade quasi del tutto prive di traffico su gomma.

Siccome le macchine private erano ancora poche fra i due viali di percorrenza vi erano uno spartitraffico racchiuso fra due filari di grandi platani con tanto di panchine dove i cittadini, gli anziani e i bambini potevano sedere e prendere un po' di fresco d’estate. Quel che però vi voglio raccontare è relativo al più vecchio ricordo che alberga nella mia mente, quello del giasè che in milanese significa uomo del ghiaccio. Ai tempi infatti i frigoriferi non erano ancora così diffusi e molte famiglie avevano ancora sul balcone La ghiacciaia che ovviamente andava alimentata non a elettricità ma con del ghiaccio vero e proprio. Si trattava di un aggeggio delle dimensioni di un comodino, isolato alla belle e meglio rivestendo di metallo l'interno della ghiacciaia.

Quindi nel periodo estivo il giasè passava col suo carro trainato da un cavallo, sì un cavallo vero in carne e ossa! che trasportava enormi barre di ghiaccio che venivano poi frammentati in blocchi di minori dimensioni a favore delle casalinghe che scendevano a prenderne per alimentare le loro ghiacciaie. Nel compiere questa operazione di frammentazione si creavano le così dette fregui ovvero degli sfridi che il giasè, invece di buttare, regalava ai bambini che le prendevano e racchiudevano in un fazzoletto per non congelarsi le mani ed le leccavano e succhiavano come se fossero ghiaccioli. Quando racconto questo episodio a mio figlio pensa che io arrivi direttamente dal Paleolitico Superiore e sia un diretto discendente del l’uomo di Cro-Magnon.

E in effetti vista da oggi sembra un ricordo ottocentesco e non degli anni sessanta del secolo scorso ovvero lo stesso decennio che vide la nascita dei Beatles.

Ah, per poco non dimenticavo un particolare interessante: le massaie più previdenti scendevano con paletta e secchiello per raccogliere gli eventuali escrementi del cavallo, ritenuti un toccasana per i gerani.

In quegli stessi anni abitavamo al quarto piano di una casa senza ascensore e senza riscaldamento centralizzato.  La prima televisione arrivò nel 1961 ed era dotato di un solo canale, quello della Rai. Ma quel che è più significativo è come l’arrivo di Raidue che necessitava di un sintonizzatore differente perché non più sul canale VHF di Rai 1 ma sul nuovissimo UHF non significò l’acquisto di un nuovo televisore ma l’intervento di un tecnico specializzato che arrivò con tanto di trapano, bucò lo chassis di legno del televisore e installò l’apparecchio elettronico completo di pulsanti per il cambio da un sintonizzatore all’altro e manopole di sintonia.

Una vera e propria operazione di upgrade ben prima dell’arrivo dei computer, anche se un po’ troppo somigliante a un intervento da carpentiere.

Tutti i miei primi giocattoli erano assolutamente pericolosi, tricicli e auto a pedali rigorosamente in metallo che arrugginiva immancabilmente alla prima pioggia.

Fino all’università io frequentai scuole dove i maschi erano rigorosamente separati dalle femmine e comunque anche al primo anno di ingegneria nel mio corso saremo stati 300 maschi e 2 femmine.

Proprio in quegli anni entrai in possesso della mia prima auto una seicento Fiat. L’auto aveva penso una ventina di anni ed era quanto di più spartano si possa immaginare.

La climatizzazione era limitata d’inverno a una levetta posta alla base del divanetto posteriore che apriva un condotto diretto al retrostante vano motore e che, oltre ad arrostire i deretani i passeggeri, inviava un refluo d’aria calda al parabrezza con l’intento di impedirne l’appannamento invernale, cosa che in effetti avveniva dopo almeno un’ora di viaggio visto che l’auto non era dotata di ventola alcuna. E’ vero che però esistevano i deflettori, dei piccoli finestrini triangolari basculanti che orientati opportunamente aiutavano a disappannare il parabrezza.

Il lunotto di termico non aveva nulla e costringeva a frequenti soste per detergerlo a meno di non avere avuto l’accortezza di averlo prima trattato con un apposito gel.

Il tergicristallo aveva una sola velocità e costringeva i nevrotici come me a sfruttare l’eventuale passeggero laterale come intermittenza umana (grazie Fabio!).

I sedili erano poco più che delle sdraio non ribaltabili però e anche le tasche laterali portaoggetti erano delle vere tasche di platica morbida che trattenevano gli oggetti grazie a un elastico!

Nessuna tetto apribile, nessuna ventola, finestrini piccoli, vi lascio immaginare l’estate cosa fosse.

Una delle più grandi passioni della mia vita è stata senza dubbio la musica e fino ai venticinque anni ho sperato potesse divenire anche il mio lavoro. Ma purtroppo il mio talento non era equivalente alla passione e quindi dopo la laurea dovetti affrontare la verità: non ero portato a fare il musicista.

Quando la mia band si sciolse attorno alla fine degli anni settanta io proseguii in solitaria solitudine in compagnia del mio amatissimo Revox A77, un registratore analogico a nastro a bobina aperta prodotto dalla casa svizzera Revox dall'agosto 1967 all'ottobre 1977. Ispirato dalla performance di Mike Oldfield che in Tubular Bells aveva fatto tutto da solo (con bel altra apparecchiatura d’intende) io mi arrangiai alla belle e meglio con la funzione suono su suono del vecchio A77 che consentiva, nel corso di una registrazione, di riversare sulla stessa pista dove stavate registrando dal vivo, quanto aveva registrato in precedenza sull’altra pista.

In questo modo ad esempio, dopo avere registrato il pianoforte come base, potevate sovrapporgli il basso, la chitarra, le percussioni, il sintetizzatore e… una gran bella dosa di rumore.

Se non ricordo male era in pratica impossibile andare oltre la quarta/quinta sovrainicisione.

Senza parlare del fatto che non potevate mettere in pausa o cominciare a registrare da un qualsiasi punto, ma che ogni singola incisione andava cominciata all’inizio e portata fino al termine senza alcuna interruzione di continuità.

Anni dopo, nell’unico momento di riavvicinamento alla musica avvenuto all’inizio degli anni 90 acquistai un registratore a cassette che reggeva fino a otto canali, un numero già straordinario ma risibile a quanto può fare oggi un qualsiasi personal computer dotato dell’opportuno software dove i canali possono essere centinaia.        

Una curiosità che invece può essere di grande insegnamento.

Nel 2000 decisi di digitalizzare tutte le mie incisioni e quelle del mio gruppo e quindi con una scheda audio apposita e del buon software riuscii a recuperare tutto anche se era stato inciso velocità di registrazione differenti (una cosa tecnicamente piuttosto complicata da spiegare).

Vissi però un momento drammatico quando mi accorsi che il nastro magnetico si andava distruggendo mentre veniva riprodotto per l’ultima volta in fase di digitalizzazione.

Il materiale plastico con cui era stato fabbricato non aveva sopportato il corso degli anni.

Qual è la lesson learned? Mai aspettare troppo tempo a backuppare i vostri dati e     quando lo fate, fatelo nel cloud evitando qualsiasi supporto fisico. Sembra che anche i CD abbiano una vita drasticamente inferiore a quella dei papiri egizi…

Restando in ambito musicale è impossibile non citare la grande invenzione di Akio Morita, il fondatore della Sony, il Walkman, un player di cassette audio grande poco più della cassetta stessa, privo di altoparlante e utilizzabile solo attraverso delle piccole (per i tempi) cuffiette.

Per i ragazzi era il realizzarsi di un sogno, portare con se la propria musica preferita cancellando le cacofonie delle città.

Chi, come me, non aveva i soldi per acquistarlo, i primi modelli erano carissimi e i miei investimenti in musica andavano tutti verso il campo produttivo, si attrezzò con una borsa a tracolla nella quale infilare il pesante e ingombrante Philips K7 o un suo equivalente, collegato con un paio di enormi cuffie da studio per ottenere lo stesso risultato però monoaurale.

Quando venni assunto la prima volta come laureato in ingegneria era il 1983 e l’azienda operava nell’aerospazio, il non plus ultra in termini Hi-Tech e in effetti in quegli anni ho visto nascere alcuni tra i più importanti esperimenti spaziali degli ultimi decenni (le missioni spaziali hanno un tempo di incubazione così lungo che in molti casi i loro ideatori non riescono a vedere il compimento, sigh) come Giotto, Hubble e Tethered.

Quando arrivai in azienda, nella Divisione Spazio e Automazione, le comunicazioni interne (portate poi a mano da fattorini in carne e ossa) e le proposte si scrivevano con la macchina da scrivere elettrica, l’unico fax era gelosamente chiuso in un loculo protetto da una porta a vetri chiusa a chiave,

le comunicazioni con le varie agenzie spaziai internazionali e i partner europei avvenivano ancora via telescrivente e siccome da buoni italiani noi ad agosto ce ne andavano tutti al mare appassionatamente chiudendo gli stabilimenti, cosa che i nostri partner internazionali faticavano a capire, al nostro rientro trovavamo il corridoio invaso da metri e metri di carta che la telescrivente aveva vomitato in nostra assenza fino all’esaurimento del rotolo.

Anche se hi-tech l’azienda vegetava in un clima impiegatizio quasi fantozziano dove la burocrazia e le rigide gerarchie gerarchiche trasudavano dalle mura e dove i giovani ingegneri come me dipendevano in toto da segretarie arpie che gestivano il proprio potere (battitura testi, fotocopie, note spese, prenotazione trasferte, prenotazione sale riunioni, ecc.) in modo assolutamente dispotico.

Involontariamente toccò a me liberare tutti i miei colleghi da questa sudditanza trasformandoli nel contempo in segretari di sé stessi.

Uscivo da un eccitante avventura interna di diversificazione dall’aerospaziale nel corso della quale mi ero occupato di strategic planning, mergers and acquisitions e marketing, avventura finita con la decapitazione del manager responsabile della stessa e lo smantellamento del suo staff di cui io facevo parte, che mi venne proposto/ordinato di rinnovare il sistema di office automation aziendale ai tempi basato su un minicomputer IBM S/36 al quale erano collegati decine di terminali stupidi/passivi.

Io ero già dotato da anni di un Toshiba T3200, un personal computer trasportabile (portatile è un termine inappropriato per quella macchina del peso di 8,5kg con un display al plasma color arancione da 3,7” e dall’hard disk da 40MB (sì megabyte non giga…), 1 MB di RAM e come processore un Intel 80826, ma certo non ero un esperto di informatica ma solo un utilizzatore ma abbastanza competente agli occhi dell’amministratore delegato da affidarmi il compito di cui sopra.

Dopo un blackout mentale di alcune ore mi recai in Hoepli la migliore libreria tecnico scientifica della città e acquistai un libro sulle LAN mentre la settimana successiva spedii mio padre, ai tempi in pensione, a ritirare tutti gli arretrati di PC professionale, a quei tempi la bibbia degli spaccabit.

Nel giro di una decina di giorni, anche grazie all’aiuto di un collaboratore cooptato nell’obsoleto nucleo che gestiva il Sistema 36 capii la direzione

 che dovevo prendere e identificato un sistema integrator in grado di portare a termine il compito, comincia la fase di progettazione e preventivazione, terminata la quale dovetti affrontare le forche caudine di uno pseudo comitato tecnico di dirigenti che si opponeva alla mia scelta di una LAN da 250 PC Windows.

Vinsi la battaglia a colpi di slide ricche di paragoni grafici che esaltavano la mia tesi nei confronti di quella degli avversari e ottenni il budget per il primo stabilimento.

Si trattò di una vera rivoluzione che costrinse me e il mio staff a un’intensa attività di formazione sul sistema e sugli applicativi, ma alla fine si trattò di un grande successo che replicai in altri due stabilimenti.

Che di una rivoluzione si era trattata mi venne confermato un paio di anni dopo da un manager al suo rientro da una lunga missione in ESTEC (ente tecnico dell’Agenzia Spaziale Europea) che mi manifestò il suo stupore notando come i progettisti una volta intenti a discutere fra loro oppure a scrivere o disegnare a mano sulla carta, erano ora invece tutti quanti concentrati a interagire con tastiera e display del proprio PC.

È da allora che mi chiedo se ho davvero fatto un buon lavoro…

Un’altra piccola grande innovazione avvenne quando in ufficio arrivò l'omino che gestiva le macchinette del caffè e delle bibite con una novità.

Non ho mai capito perché venisse chiamato omino anche se era grande e grosso come un toro, ma in ogni caso un giorno invece di passare ufficio per ufficio a vendere i gettoni indispensabili per prelevare le bevande dalle macchinette, si mise a distribuire una piccola chiavetta elettronica che poteva essere caricata direttamente alla macchinetta addirittura con delle banconote sollevandoci dal terrore di rimanere senza gettoni durante una delle numerose e lunghe notti passate a preparare l'offerta di una qualche gara internazionale.

La chiavetta, sì noti distribuita molti anni prima di quelle usate poi come memorie mobili nei computer, poteva essere caricata fino a un massimo di diecimila lire. Quella mattina stessa andando a prendere il caffè alla macchinetta notai che sul display della stessa appariva la cifra di 99 mila lire. Il collega che l’aveva inserita mi guardò sorridendo.

“L'abbiamo aperta 5 minuti dopo che ce l'avevano consegnata è una stupidissima EPROM e non abbiamo resistito alla tentazione di riprogrammarla. Sennò che ingegneri saremmo?” Ovviamente poi mi assicurò che avrebbe subito dopo cancellato l'importo indebito.

Poche settimane dopo tutte le chiavette vennero sostituite da una nuova versione.

Mentre noi informatici credevamo di essere i depositari di una nuova ed esclusiva conoscenza, il mio amministratore delegato uomo di grande visione strategica ma agghiacciante sotto l'aspetto della gestione delle risorse umane,

si premurò di farmi abbassare le ali lanciandosi in una previsione che si sarebbe rivelata assolutamente vera ma che in quel momento sembrava una folle butade: da lì a pochi anni i computer sarebbero diventati una commodity e sarebbero stati venduti nei supermercati.

Il primo cellulare che vidi dal vivo occupava più di metà di una valigetta 24 ore ed era dotato di cornetta come un normale telefono da scrivania.

Il possessore, ai nostri occhi un traditore che si era venduto ai francesi della Thomson fu oggetto di dileggio per diversi giorni nel corso delle sue visite nel tentativo di allacciare una collaborazione con la nostra azienda.

Da allora l'evoluzione dei cellulari è stata formidabile e forse in assoluto la più rapida tecnologicamente parlando. Ancor più sorprendente è stata la pervasività di questo strumento diventato l'indispensabile compagna della nostra vita. Basta osservare i passeggeri di un vagone della metropolitana per capire qual è la loro principale occupazione. Non più chiacchierare con il vicino di posto ma controllare email, postare su Facebook, leggere le ultime news o addirittura guardare l'ultima puntata del proprio serial tv preferito.

Ma il cellulare per diventare lo smartphone che oggi tutti noi conosciamo e usiamo ha dovuto inglobare dispositivi, funzioni e tecnologie appartenente ad altri ambiti applicativi.

Primo fra tutti il PDA – Personal Digital Assistant – una famiglia di dispositivi creati per gestire elettronicamente l’agenda, i contatti e le note. Il dispositivo più diffuso e evoluto fu quello della Palm, una società del Gruppo Motorola, che creò un vero gioiello anche sotto l’aspetto ergonomico.

Il Palm V stava infatti nel palmo della mano e il display lcd era protetto da un “organica” cover in cuoio rigido incernierato su un lato e sul retro del quale era riportato uno sticker che riportava le corrispondenze tra i caratteri alfanumerici

latini e il graffiti, il simbolismo attraverso il quale era possibile interagire con il device scrivendo direttamente sullo schermo con la pennetta in dotazione che si sfilava dal corpo metallico stesso del Palm.

È evidente che si trattava di una barriera d’ingresso non banale e che costringeva l’utente a cimentarsi per un periodo non brevissimo ad apprendere una nuova manualità.

A me la cosa riuscì piuttosto bene, tanto che scrissi sul Palm almeno tre quarti del mio libro Lo strano caso del dottor JakeIT e di Mr. Hidiot, una specie di parodia del classico di Stevenson, opportunamente riadattato per esaltare le tesi di una nota azienda informatica internazionale per la quale stavo lavorando in quel momento (il libro venne anche pubblicato da Lupetti Editore senza gli innesti pubblicitari e venduto in un migliaio di copie).

Unica pecca: l’effetto collaterale di usare il graffiti anche con carta e penna con qualche imbarazzo nel caso di atti pubblici, documenti bancari, ecc.

Ricordo ancora con terrore lo sguardo di mia moglie quando consegnai un biglietto di auguri in graffiti a non ricordo più quale suo parente che m’interrogò davanti a tutti sulla mia “canigrafia”. L’effetto fu lo stesso che avrebbe avuto Sheldon Cooper usando il Klingon in una orazione pubblica.

Nel mondo dei PDA entrarono poi anche Miscrosoft e Apple creando dei veri e propri computer palmari, anche se molto più grossi, col display a colori e un formato non più ergonomico come il PalmV.

Ma si trattava dei prodomi di quanto sarebbe poi avvenuto con i Tablet e gli smartphone, eliminando però l’obbligo dell’input con la penna.

Voglio comunque inserire una doverosa citazione per un mio amatissimo compagno di moltissime ore, eccitanti, commoventi e di assoluto impegno intellettuale, l’ebook.

Oggi sono alla quarta macchina con lo schermo eInk dedicata alla lettura e ne voglio ribadire l’assoluta superiorità: si tiene aperto con una sola mano (provate voi a tenere aperto a letto il volume in brossura di 1049 pagine dei Pilastri della Terra di Ken Follet), consumo di batteria ridottissimo (settimane invece di ore rispetto a uno smartphone), lettura perfetta al sole, può contenere migliaia di libri, traduzione e dizionario istantanei e contestuali, ricerca di testo libero, inserimento annotazioni, segnalibro automatico, diversi font utilizzabili e soprattutto grandi quanto si vuole, e con l’avanzare dell’età questo non è affatto banale, dimensioni e peso ridottissimi rispetto a un libro, eppure c’è ancora chi dice: ma il profumo della carta e della stampa, la sensazione tattile della carta quando invece di un libro della collana Meridiani sta leggendo un misero paperback.

 

Ho voluto lasciare per ultima l’innovazione più rivoluzionaria di tutte quelle che ho vissuto. Sto parlando di internet ovviamente.

Il primo file del mio archivio digitale che conferma la mia presenza attiva su internet risale al 24 gennaio del 1996, quando acquistai online la licenza di Hot Dog, uno dei primi editor HTML.

È probabile quindi che io abbia cominciato a navigare su internet nel 1995. Acquistai Hot Dog per cercare di rabberciare almeno una paginetta per l’azienda per la quale lavoravo.

Nel 1997 creai il mio primo sito personale www.pasotti.org, perché ero stato bannato da usa.net, dove avevo creato il mio primo sito, perché avevo usato lo spazio a mia disposizione come se fosse un repository su cloud, un antesignano dei vari Dropbox, Google Drive, Onedrive, ecc., per archiviare i miei file senza doverli salvare sui lentissimi floppy disk e per potervi accedere quando mi trasferivo da un ufficio a un altro.

Su Internet da allora ho fatto veramente di tutto e di tutto ho imparato e avuto.

In cassa mia ho collegato a Internet tutto quello che potevo collegare e/o mi hanno lasciato collegare (per fortuna non vivo da solo…).

Non voglio di certo mettermi a elencare vantaggi e svantaggi della grande rete, ma solo ricordare come certe cose fossero davvero difficili, lunghe o addirittura impossibili prima di internet.

Nel corso del mio primo impiego mi capitò di partecipare a una gara internazionale per la fornitura di un complesso impianto per l’automazione di una centrale idroelettrica a Medellin in Colombia.

L’azienda per la quale lavoravo non aveva tutte le competenze per completare la fornitura e quindi si rese necessario coinvolgere altre aziende in veste di fornitori.

Ci vollero mesi per identificare i partner corretti, raccogliere fisicamente la documentazione (ed essendo a Milano era quasi tutto presente in città) e alla fine confezionare alcuni scatoloni di raccoglitori (erano richieste più copie) e inviare un nostro collega con quell’ingombrante bagaglio fino in Colombia per consegnare di persona la proposta.

Questo scherzetto (detto fra noi senza speranza) costò all’azienda un occhio nella testa ma fa una impareggiabile prova di coesione e intraprendenza che ci consentì d’imparare a superare altre prove anche se non di quella dimensione. Se a quei tempi avessimo avuto internet, la ricerca dei partner e raccolta della documentazione ci sarebbe costata pochi giorni e nessuno avrebbe dovuto fare migliaia di fotocopie, assiemarle in raccoglitori e poi portarle fisicamente di persona a migliaia di chilometri di distanza.

Di esempi come questo ne potrei portare a centinaia sia per la sfera lavorativa, sia per quella personale, ma lo scopo di questo capitolo non è realizzare un’analisi puntuale e storiografica dell’innovazione ma rendere l’idea di quante cose siano cambiate e a quale velocità in pochi decenni partendo dalla distribuzione delle barre di ghiaccio con un carro trainato da un cavallo a Milano nel 1960 alla messa in orbita della prima navicella spaziale commerciale del 2020, dal telefono inchiavardato su una parete allo smartphone nelle nostre tasche, dal regolo calcolatore al tablet che portiamo in borsa.

È davvero cambiato tutto e il trend non tende a rallentare e quindi nessuno di noi ha idea di dove ci ritroveremo solo fra qualche anno e soprattutto su cosa e quanto sarà restato da fare agli esseri umani e non alle macchine.


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