Esistono alcuni casi nella storia dell’umanità in cui gli uomini sono riusciti a riunirsi per trattare e decidere su argomenti complessi e riuscire, magari dopo laceranti tensioni, diverbi e rotture delle relazioni, a stabilire regolamenti, standard e addirittura leggi sovranazionali.

Un caso emblematico, almeno ai nostri fini, è quello del Sistema Internazionale di Misura, il più diffuso sistema di unità di misura mondiale, tranne che nei paesi anglosassoni sono ancora impiegate delle unità tribali come pollici, piedi e braccia.

Il precursore del SI di misura è il sistema metrico decimale elaborato da una commissione presieduta da Lagrange dal 1791, in piena Rivoluzione Francese. Tale sistema si diffonde lentamente in Europa e quindi anche in Italia.

Unità, terminologia e raccomandazioni del SI vengono fissate dalla Conférence générale des poids et mesures (CGPM), organismo collegato con il Bureau international des poids et mesures (BIPM), creati alla convenzione del Metro del 1875.

Il Sistema Internazionale di Misura nacque ufficialmente nel 1889 in Francia con la 1ª CGPM: allora si chiamava "Sistema MKS" perché comprendeva solo le unità fondamentali di lunghezza (metro), di massa (chilogrammo) e di tempo (secondo).

Nel corso dei decenni il Sistema si è allargato a comprendere molte altre unità: nel 1935 fu ampliato per includere le grandezze elettriche; nel 1954 la 10ª CGPM aggiunse la temperatura assoluta (e l'unità di misura associata: kelvin) e la intensità luminosa (definendo poi come sua unità di misura la candela); nel 1961 la 11ª CGPM sancisce finalmente la nascita del Sistema internazionale (SI). Nel 1971 si aggiunge la quantità di sostanza come grandezza fondamentale, e definisce la mole attraverso il numero di Avogadro. Nel 2018 la 26ª CGPM ha finalmente ridefinito le unità fondamentali in termini di costanti fisiche, aggiornandosi finalmente con la considerazione dei risultati raggiunti da anni nella disciplina dell'analisi dimensionale.

Come si vede è stato ed è un processo lungo e complesso che sottende a fondamentali attività economiche come la possibilità di esportare e importare materie prima, semilavorati e manufatti finali avendo al certezza di conoscerne le relative caratteristiche fisiche.

Altri importanti esempi di organizzazioni internazionali sono: l’ONU, l’OMS, L’Unicef, e le altre decine di organizzazioni creare per decidere e agire su temi specifici.

Queste organizzazioni, anche grazie allo sforzo di importanti scienziati e ricercatori sono riuscite a deliberare su temi molto spinosi.

Prendiamo un esempio di cui spesso abbiamo sentito parlare nei nostri telegiornali per le vibrate e a volte disperate proteste che ha causato anche nel nostro paese: le quote latte.

La quota latte era un limite sulla produzione di latte per ciascun allevatore nella Comunità europea, oltre il quale si applicava una tassazione detta prelievo supplementare. Il regime del prelievo supplementare era uno strumento di politica agraria comunitaria che imponeva agli allevatori europei un prelievo finanziario per ogni chilogrammo di latte prodotto oltre un limite stabilito (quota latte). Erano gli acquirenti di latte (latterie, caseifici, ecc.) a fungere da sostituti di imposta: essi dovevano quindi tener monitorate le consegne di latte dei produttori propri conferenti e nel momento in cui questi ultimi avessero superato la quota latte dovevano trattenere – dall'importo che periodicamente liquidavano ad essi come pagamento per il latte acquistato – il prelievo stabilito dalle norme comunitarie.

Scopo delle quote latte era di evitare che l’eccessiva produzione di latte potesse portasse a cali nel prezzo di vendita alla stalla, con conseguente perdita di profitto per gli allevatori. Le quote latte si configuravano infatti come una misura volta a regolare l'offerta, disincentivando fortemente la produzione oltre certi limiti.

Questo limite è stato abolito nel 2015 dopo oltre trent’anni di scenografiche proteste dei produttori che hanno portato le loro mucche nelle piazze delle nostre

città inondandole ogni tanto del latte prodotto in eccedenza e che non conveniva loro commercializzare.

 

Secondo la Commissione europea, le quote latte al giorno d’oggi non hanno più senso perché non vi è più il rischio di eccedenze strutturali come si verificava nel passato, soprattutto perché, ora, la vera sfida è il mercato globale.

Questi sono solo due esempi di come l’uomo abbia tentato, non sempre con successo di regolamentare e stabilire unità di misura e limiti parametrici alle più disparate attività dell’uomo.

Si potrebbe allora pensare a un organismo internazionale (Automation Intensity International Bureau) in grado di elaborare una proposta condivisa di unità di misura dell’Intensità di Automazione, stabilendo ad esempio come unità di misura base il tempo impiegato da un uomo a compiere una certa operazione e misurando poi, in un certo spazio temporale, quante volte lo specifico sistema di automazione riesce a compiere la medesima operazione.

In altre parole sarebbe un equivalente di come veniva una volta misurata la potenza di un motore, ovvero non con gli attuali Watt ma con i Cavalli Vapore. L'unità di misura nacque all'inizio dell'industrializzazione di massa perché gli investitori necessitavano di un'idea immediata della produttività dei macchinari a motore, cioè quanti cavalli potessero essere sostituiti dal propulsore o dal sistema motore (all'epoca tipicamente motori alternativi a vapore).

Ad esempio se un essere umano impiega 27 secondi a inserire 24 biscotti nella loro confezione, mentre la macchina ne impiega solo 3, la sua Intensità di Automazione sarebbe di 9, ovvero ci vorrebbero 9 uomini per ottenere il medesimo risultato produttivo.

Lo stesso metodo andrebbe ovviamente applicato anche alle attività impiegatizie (automazione di ufficio), amministrative (sistemi gestionali), di sviluppo (CAD, CAE, etc).

Ogni produttore dovrebbe certificare l’Intensità di Automazione delle proprie macchine e l’azienda utilizzatrice dovrebbe calcolare la propria Intensità di Automazione complessiva. È auspicabile che anche queste attività possano essere affidate a appositi enti certificatori in grado di determinarne l’entità con il massimo di oggettività possibile.

Questo dato dovrebbe essere dinamico e ricalcolato ogni volta che si inserisce una variazione di una certa importanza nel processo produttivo aziendale.

Andrebbe poi elaborato un processo similare a quello già esistente degli studi di settore.

Gli studi di settore sono uno strumento che il fisco utilizza per rilevare i parametri fondamentali di liberi professionisti, lavoratori autonomi e imprese. La parte principale consiste nella raccolta sistematica dei dati che caratterizzano l'attività e il contesto economico in cui opera l'impresa, allo scopo di valutare la sua capacità reale di produrre reddito e sono impiegati per l'accertamento induttivo degli esercenti arti e professioni e imprese.

Sono divisi in macroaree (servizi, commercio, manifattura e professionisti). La loro elaborazione è piuttosto complessa ed è basata su un procedimento statistico che dopo la raccolta dei dati, prevede l’individuazione di modalità omogenee (cluster) e la determinazione dei ricavi.

In modo similare dovrebbe esistere un comitato in grado di calcolare l’Intensità Media di Automazione di Settore (IMAS) di ogni comparto merceologico per poterla confrontare con quella della specifica azienda (Intensita di Automazione Impresa - IAI).

Sull’IMAS, il Governo potrebbe poi, con l’aiuto di economisti e tecnici, confrontandolo con quello di altri settori, decidere addirittura che l’intero comparto soffre di un eccesso di automazione e necessita di un piano per riequilibrare produttività/occupazione.

Se IAI è inferiore a IMAS, non è necessario alcun intervento da parte Governativa (e nemmeno l’impresa potrebbe dover intervenire perché come vedremo poi potrebbe aver adottato strumenti competitivi diversi dalla produttività), se invece IAI è superiore a IMAS, il Governo potrebbe prendere in considerazione diverse strategie:

  • Imporre una riduzione dell’Intensità di Automazione (Slow Automation!) obbligando l’impresa a sopperire al relativo calo di produzione con l’assunzione di nuova forza lavoro
  • Tassare l’impresa in misura equivalente alla spesa che lo Stato sostiene in termini assistenzialistici per sostenere un numero di disoccupati equivalente all’eccesso di automazione denotato dallo specifico IAI
  • Compensare (almeno nei primi anni di applicazione) l’impresa che è costretta ad assumere, praticando una detrazione fiscale equivalente alla spesa che lo Stato sosterrebbe per assistere un pari numero di disoccupati
  • Altre immaginifiche soluzioni che di certo esistono e che altri saranno in grado di escogitare :-)

È evidente che un intervento similare non inserito in un piano più ampio non potrebbe che portare alla distruzione di interi settori di mercato che soccomberebbero alla competizione di aziende estere residenti in paesi che non aderiscono all’Automation Intensity International Bureau.

Se invece l’ Automation Intensity International Bureau fosse davvero un organismo internazionale le cui indicazioni venissero adottate da tutti i Governi, si assisterebbe a una perfetta applicazione del concetto di Slow Automation, con un rapido beneficio in termini occupazionali, senza di fatto togliere nulla alla ricchezza delle nazioni stesse, senza imporre alcuna anacronistica limitazione all’innovazione tecnologica e accettando il banale concetto che la crescita infinita è una mera illusione e un assurdo economico.

Si tratta evidentemente di un intervento radicale che ha importanti influenze sui conti economici delle aziende che perdendo in produttività, si vedranno costrette a sostenere maggiori costi che, per mantenere la redditività, si tradurranno in un aumento dei prezzi di vendita, cosa che si scaricherà sul consumatore finale che vedrà ridurre il proprio potere di acquisto complessivo.

I governi dovranno quindi porre molta attenzione nell’applicare la Slow Automation su larga scala e dovranno approntare sistemi di rilevazione degli effetti degli interventi confrontandoli con i minori costi di assistenza alla disoccupazione.

Questi minori costi dovranno tradursi in incentivi economici alle aziende dedicati all’assunzione di nuovo personale,

L’applicazione della Slow Automation deve essere vista come un intervento molto simile e altrettanto importante della carbon tax.

La carbon tax è una imposta sulle fonti che emettono anidride carbonica nell'atmosfera. Questo è un esempio di tassa ecologica, che gli economisti ritengono sia preferibile perché impone tasse su una cosa negativa come l’inquinamento piuttosto che su qualcosa di positivo come il reddito. È uno strumento di politica fiscale in base al quale l'aliquota fiscale fissata dal governo viene imposta su ogni tonnellata di inquinamento da anidride carbonica rilasciata dai combustibili fossili.

Se è mandatorio salvare il pianeta sul quale viviamo lo è altrettanto preservare la dignità e il benessere de suoi abitanti.

Nei paragrafi successivi esamineremo alcune ipotesi in grado di compensare la perdita di competitività.

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