(E. Flaiano)

Hula, come tutte le metropoli, era asfissiata da mandrie di macchine rombanti, camion sbuffanti e ciclomotori starnazzanti. Risultato: inquinamento, rumore e tempi di percorrenza inaccettabili. I danni per il sistema economico e sociale erano incalcolabili.

Una mattina, all'incirca a un mese dalla sua elezione, il Governatore si vide sottoporre la firma di un decreto per il blocco del traffico domenicale.

"Ma funziona?" chiese all'assessore all'ambiente, un giovane arrogante che gli si era presentato infilato in un maglione sformato di tre taglie superiore al necessario.

"Quelli dell'Unità di analisi dicono che non serve a niente, ma sa come sono i tecnici... pensano che la verità sia nei numeri, invece noi sappiamo che non è così, eh?"

Justin Durban non fece commenti e firmò il decreto, ma aveva già deciso che la sua piccola rivoluzione sarebbe cominciata proprio da lì. Innanzitutto aveva bisogno di numeri. Lui, a differenza di quello stolto dell'assessore, credeva nella forza dei numeri. Quel che scoprì nel giro di poche ore spulciando tra le decine di studi e analisi di autorevoli istituzioni era riassumibile in un solo statement: in una città di un milione e mezzo di abitanti, ogni giorno entravano nel perimetro urbano oltre novecentomila autoveicoli la cui velocità media era meno di dieci chilometri l’ora e naturalmente i cittadini di Hula non andavano a piedi, ma incrementavano quella mandria sbuffante con un altro mezzo milione di veicoli. Tutti i tentativi di convincere la cittadinanza ad usare i mezzi pubblici erano miseramente falliti, nonostante i miliardi spesi in linee metropolitane, corsie preferenziali e prezzi politici dei biglietti.

Il Governatore, quando era un manager, era famoso per il suo decisionismo: sbagliare in fretta per correggersi in fretta. L’inazione era in assoluto il peggiore degli errori nei quali un manager poteva incappare e lui non l’avrebbe commesso nella sua nuova veste di Governatore.

Foto di Tiziana Callegari

Si mise subito al lavoro. Inserì un CD di Mozart nello stereo e cominciò a pestare sulla tastiera del suo fido notebook. Aveva meno di tre ore di tempo per preparare il progetto che avrebbe presentato quel giorno stesso nella quotidiana seduta pomeridiana del Consiglio.

La Sala del Consiglio risaliva al 1689 e a parte l’impiantistica era identica a come l’avevano voluta i suoi ideatori: gli stessi scranni a emiciclo posti su due file concentriche rivolte verso le sedute occupate dal sindaco e dai suoi assessori. L’ordine del giorno prevedeva la solita decina di punti dedicati a stupide e per niente importanti questioni come la scelta dei nuovi arredi urbani o la calmierazione del prezzo del pane.

L’assemblea, quel giorno, era stranamente al gran completo perché si prospettava un’accesa discussione politica sulle sovvenzioni comunali nei confronti di un’associazione artistica vicina a una sola delle due parti politiche che si erano accordate per formate il governo.

Come si fu seduto sulla sua poltrona, Justin Durban chiamò il Cerimoniere e gli disse d’inserire anche il suo nome fra quelli degli oratori. Avrebbe parlato per ultimo e la cosa gli andava bene, perché di certo sarebbe scoppiato un caos senza precedenti.

Vide anche il Cerimoniere informare i capigruppo delle due opposte fazioni politiche, che da quel momento cominciarono a squadrarlo di traverso. Geena Kampf era la leader della Destra e il suo nome, da solo, era già un programma politico. Bella, giovane e battagliera, aveva sbaragliato in pochi anni tutti gli avversari politici interni e aveva assunto il potere totale del Partito Conservatore di Hulahop. Non amava le sorprese e fra tutti era stata l’ultima a convincersi della candidatura di Durban a Governatore. Fra i due non correva buon sangue e, anche se Justin faceva di tutto per evitare qualsiasi forma di contrasto e contatto diretto, sapeva che più prima che poi lo scontro vi sarebbe stato e che nessuno dei due avrebbe mollato la presa fino alla morte, politica s’intende, dell’avversario.

John Bentham, invece, era un distinto cinquantenne proclamato leader del Partito Democratico di Hulahop, solo in occasione delle ultime elezioni politiche. Era un fine oratore, intellettualmente onesto e preparato, ma era a sua volta vittima delle correnti interne del suo partito e per ogni decisione doveva passare attraverso le forche caudine di interminabili negoziazioni. Fra lui e Durban vigeva un atteggiamento di mutuo, distaccato rispetto ed era l’unico ad aver dichiarato apertamente all’ex-manager la natura del suo incarico, non di mediatore, ma di fantoccio rappresentativo.

Dopo due ore di tedioso sproloquio, durante il quale Durban imparò molte cose su come non si doveva scegliere una linea estetica per gli arredi urbani, venne il suo turno.

“Signori” tuonò il Cerimoniere “anche se non previsto dall’ordine del giorno, il Governatore ha chiesto di poter intervenire. Vi prego quindi di restare seduti. Governatore, a lei la parola”.

Justin Durban si alzò in piedi, si schiarì la voce non perché ne avesse bisogno ma perché così era abituato a fare per scaricare la tensione, aggiustò l’altezza del microfono, diede un ultimo sguardo alle slide che aveva preparato e che nessuno avrebbe mai visto perché solo poco prima aveva scoperto che in quella vetusta aula non c’erano nemmeno uno schermo e un proiettore e diede inizio alla battaglia.

“Signori Assessori e Consiglieri, signore e signori giornalisti. Innanzitutto mi scuso per questo mio intervento improvviso, ma ho deciso che era arrivato il momento di dare il mio personale contributo alla gestione della cosa pubblica”.

Dagli aviti scranni si alzò subito un mormorio di stizzito stupore e se nessuno dei consiglieri si alzò a zittire il Governatore, fu solo perché era presenta la stampa. Justin Durban aveva usato un tono volutamente solenne perché fin dall’inizio voleva che fosse chiaro che si trattava di una dichiarazione di belligeranza.

“In questo primo mese del mio mandato mi sono limitato a prendere visione del funzionamento della macchina pubblica e ho avvallato tutte le delibere che sono state sottoposte alla mia firma, senza dire nulla non perché fossi sempre d’accordo, ma perché non avevo competenze specifiche sugli argomenti trattati e, non preoccupatevi, così continuerò fare per le cose delle quali non ho conoscenza o che ritengo con il mio buon senso essere giuste.

Ma vi sono delle cose nella Valle che non vanno e per le quali non vedo sufficiente impegno da parte di questa Amministrazione e delle quali invece i nostri cittadini invece necessitano. Si tratta di vere e proprie emergenze che hanno un grave impatto sulla salute attuale e futura dei nostri elettori, sull’economia dell’intera valle e, oso dire, sulla sopravvivenza stessa della nostra società”.

Durban si prese una pausa ad arte per lasciare il tempo a chi lo stava ascoltando di mormorare ancora più rumorosamente. Intanto i giornalisti si erano svegliati dal loro torpore e avevano piazzato i loro registratori sul banco davanti al suo scranno e l’unico cameraman presente si era seduto per terra, davanti a lui, per poterlo meglio riprendere.

“La prima di queste emergenze si chiama traffico. È un’emergenza sotto gli occhi di tutti e che chiunque vive sulla propria pelle e per la quale tutto quello che è stato fatto e speso è risultato essere del tutto inutile. Su questo tema si sono spesi litri d’inchiostro e intere foreste di carta per stampare dotti e dettagliati rapporti sullo stato del traffico nella valle e sugli impatti economici e salutistici. Io non voglio ora mettermi a elencare i numeri di questo dramma, anche se i numeri solo l’unica vera verità” e così dicendo squadrò lo stupido assessore all’ambiente che aveva affermato il contrario “ma ricorderò solo i principali danni che ne derivano. Innanzitutto la funzione stessa che un mezzo di trasporto dovrebbe soddisfare: trasportare rapidamente, confortevolmente e in sicurezza merci e persone. Questa funzione è attualmente disattesa dal sistema in essere. Dieci chilometri l’ora è la velocità media di percorrenza di un’autovettura privata nella capitale. Ridicolo! Una qualsiasi persona in buona salute ne può percorrere di più, soprattutto se usa un mezzo non inquinante e salutare come una bicicletta, un monopattino o dei rollerblade. In altre parole tutti noi spendiamo delle cifre pazzesche per andare più lentamente di quanto potremmo fare non spendendo niente. E per chi proprio non vuole usare le proprie gambe converrebbe comunque usare un mezzo pubblico su una corsia preferenziale grazie alla quale i tempi di percorrenza diventano davvero competitivi.

In secondo luogo l’inquinamento: polveri sottili e altre schifezze del genere sono ormai una conclamata causa di malattia e di morte e il traffico ne è un formidabile generatore.

In terzo luogo i danni economici derivanti dalla lentezza dei trasporti: lavoratori in ritardo, merci in ritardo, costo sociale delle malattie, consumo di prezioso carburante, eccetera.

Questa situazione è apparentemente senza soluzione a meno di prendere una decisione semplice, ma coraggiosa”.

Il Governatore si prese un’altra pausa perché adesso arrivava il bello. Trasse un profondo respirò e buttò il cuore oltre l’ostacolo.

“Ho deciso di proclamare un mese di sospensione del traffico privato in tutta la capitale”.

A questo punto nella Sala del Consiglio di alzarono tutti in piedi e cominciarono a urlare a squarciagola.